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che Polidori avesse potuto fare una cosa del genere, con un'impudenza così assoluta da
rasentare la naturalezza. Mi venivano in mente i suoi discorsi commossi a Milano, e i suoi appunti
in margine alle fotocopie nello studio sopra la casa, e come mi aveva presentato a Oscar Sasso e
al suo editore spagnolo; tutto il gioco di lusinghe e incoraggiamenti e consigli e sollecitazioni che
aveva condotto fino al mese prima. Mi venivano in mente le sue considerazioni sui politici italiani e
sulla loro sfrontatezza, sul loro dare per scontato di potersi prendere tutto quello su cui riuscivano
a mettere le mani. Ma ho continuato a leggerlo, perchè era comunque il mio romanzo e mi faceva
effetto poterlo sfogliare in una forma così definitiva, ogni pagina ben composta, stampata netta e
regolare nero su bianco. Era la sensazione che avevo cercato di immaginarmi molte volte da
quando avevo cominciato a riscriverlo, e ancora più da quando avevo firmato il contratto con
Rocas; e naturalmente era diversa da come mi ero immaginato, perchè il nome sulla copertina
non era affatto il mio. Man mano che andavo avanti ero anche curioso di vedere come Polidori
aveva risolto il finale che mi aveva lasciato incerto così a lungo, ma quando sono arrivato In fondo
non lo aveva risolto affatto. Aveva chiuso la storia esattamente dove l'avevo interrotta io; non si
era preoccupato di concludere né spiegare o giustificare o riassumere niente. Era stato molto più
spregiudicato di me: il libro finiva netto e secco sull'ultimo dialogo che avevo scritto. La cosa
curiosa era che a leggerlo così andava bene, non mi sembrava che ci fosse nessun bisogno del
meccanismo complicato che avevo inventato nella mia seconda versione per far tornare tutti i
conti.
Poi l'ho messo giù, e i sentimenti che erano rimasti abbagliati dall'incredulità hanno
cominciato a venire fuori: rabbia e delusione e senso di tradimento e sdegno e desiderio di
vendetta, e almeno una minuscola parte di orgoglio all'idea che Marco Polidori avesse trovato il
mio libro abbastanza buono da pubblicarlo a suo nome. Ma l'avrei ammazzato, adesso che stavo
tornando lucido poco alla volta.
Gli ho telefonato subito, alla sua casa-studio: ho detto al nastro della segreteria: «Sono
Roberto, devo parlarti subito».
Lui ha preso la linea, ha detto: «Roberto».
Sono rimasto spiazzato, perchè non mi aspettavo che rispondesse; gli ho detto: «Senti, è
meglio se ci vediamo». Facevo fatica a controllarmi; il mio istinto era di gridargli subito qualcosa.
Lui ha detto: «Va bene, quando vuoi tu».
Non aveva il tono cordiale delle altre nostre telefonate, ma non sembrava nemmeno a
disagio: sembrava fermo, sicuro. «Subito», gli ho detto, e la voce mi tremava dalla rabbia. Lui ha
detto: «Ti aspetto qua».
Ha fatto scattare la serratura del portoncino da sopra, e sono salito nell'ascensore ben curato,
con la testa piena di frasi contro di lui. Mi giravano dentro come il traffico nella piazza a imbuto di
Bedreghin: camion e motociclette e macchine smarmittate di pensieri così rumorosi da
assordarmi.
Polidori è venuto ad aprirmi subito; aveva la faccia abbronzata, i capelli grigi tagliati cortissimi.
Mi ha stretto la mano, di nuovo senza disagio avvertibile, ha detto: «Entra».
Siamo andati nel soggiorno. La temperatura era almeno dieci gradi più bassa di fuori, c'era un
condizionatore sofisticato da qualche parte che raffreddava l'aria e la deumidificava con solo un
leggero fruscio. Ci siamo guardati a forse tre metri di distanza. Avevo il cuore che mi batteva
irregolare per la rabbia e l'odio appena repressi, mi sentivo formicolare le mani. Non mi ricordavo
di essere mai stato in una situazione simile, se non forse da bambino quando mi era capitato di
affrontare un ladro di giochi o un prevaricatore più grande di qualche anno; non avevo un filo da
seguire, solo frammenti assordanti di frasi nelle orecchie. In più c'era il freddo artificiale
dell'appartamento, sembrava che insieme al sudore congelasse lo spazio tra me e lui.
Polidori mi ha chiesto: «Vuoi bere qualcosa?» [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]

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